11 febbraio 2011

Le correzioni - Jonathan Franzen

“Le correzioni” è un romanzo sul tempo che passa e sull’ineluttabilità della vita. A volte abbiamo l’impressione di essere gli unici che stanno sprecando occasioni, che si stanno lasciando sfuggire gli anni migliori o che non arriveranno mai a raggiungere i propri obiettivi. Un diretto corollario di questo pensiero è credere che il resto del mondo ci riesca senza problemi. “Le correzioni” ha il pregio di farci capire come questo pensiero sia comune anche a coloro che non abbiamo mai incontrato, persone che come noi guardano le pagine del calendario staccarsi una dopo l’altra combattendo con l’ansia di non essere all’altezza, gravati dalla salute dei genitori e dalle preoccupazioni economiche. C’è chi ha una famiglia e vorrebbe fuggirne perché si sente incompreso, se solo non fosse per tutti quei sensi di colpa. Chi non ce l’ha e vorrebbe averla perché si sente inadeguato, ma teme che sia troppo tardi. La commozione e la partecipazione che si prova per i personaggi estremamente vividi di questo romanzo non è altro che un riflesso di come noi ci vediamo dall’esterno. Una lente che riesce a schermare l’indulgenza controproducente o l’eccessiva autocritica che spesso rivolgiamo contro noi stessi.

    L’etero, il gay, il marito perfetto, lo scapolo impenitente, il padre di famiglia, l’eterno bambino, il maschio e la femmina. Questa storia racchiude nell’ecosistema di una famiglia-tipo tutti gli archetipi della società contemporanea alla luce del costante desiderio di realizzazione e della ricerca di una felicità che sembra allontanarsi sempre di più. Bambini che diventano genitori di bambini che odiano i propri genitori. La narrazione si dilata fino ad assumere i contorni di una grande saga familiare in appena seicento pagine, tanto clinica è la precisione con cui i caratteri sono delineati. Sembra quasi di conoscerli e di poter leggere tra le righe come si fa con persone che conosciamo, persone vere. Ecco quanto bene è scritto questo romanzo – e lo dico nonostante “bolle” narrative appesantite da divagazioni sulla neurochimica e sulla situazione politica della Lituania che francamente potevano essere evitate. Un discorso a parte per il capitolo sulla nave da crociera, deprimente almeno quanto noioso. Come se Franzen non avesse trovato altro con cui riempire i paragrafi se non conversazioni casuali e confusionarie costruite per accumulo. Spassosa la scena con il giovane dottore che millanta le capacità rivoluzionarie di un presunto “psicofarmaco”, senza però riuscire a ricordare un nome che gli viene ripetuto almeno dieci volte. Discutibile invece la scelta di mostrare il progredire della malattia del padre inscenando un piccolo teatrino immaginario tra l’uomo ed uno dei suoi escrementi, che lo insulta e si rotola sulle lenzuola per poi cercare di assalirlo. La mia generazione (’80 e forse ’90) legge questo paragrafo e vede soltanto Mr. Hankey  (lo stronzo canterino di South Park targato MTV), il che conduce inevitabilmente alla comicità involontaria invece che all’auspicato effetto di straniamento. Questo capitolo si salva solo grazie al colpo di scena finale. Semplicemente perfetto, invece, il capitolo sull’ultimo Natale.

    Franzen ci mostra con occhio disilluso ma non cupo che la vita – il rapporto con i propri genitori, il misurarsi con le loro aspettative, lo scontro tra i propri desideri e la consapevolezza di quanto questi siano differenti dagli obiettivi razionali e condivisibili che ci poniamo – è fatta unicamente di rapporti umani che non possono essere “corretti” in alcun modo. Non possiamo cambiare gli altri, ma possiamo cambiare noi stessi. Spesso, superare la paura del cambiamento è l’unico sforzo necessario.

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