Cosmopolis di
bello ha una sola cosa: il trailer. Dopo il primo minuto in limousine viene un
atroce sospetto, subito confermato: “Ah. E’ uno di quei film.” Dove per quei film si intende quelli che con il
pretesto dell’autorialità si crogiolano nella noia e nell’essere poco mainstream come punto di forza, secondo
la logica del ‘meno piaci al pubblico, più sei intellettuale’. Ebbene ci sono
film intellettuali assolutamente godibili, ma Cosmopolis non è uno di questi. L’aver cercato di restare fedele ai
dialoghi di De Lillo è forse il grande limite di questa produzione. Discorsi pretestuosi,
monocorde, d’impostazione quasi teatrale. La limousine
in cui è ambientato il film è rivestita di sughero, espediente che dovrebbe
insonorizzarla dal mondo esterno, creando un’alienazione netta del protagonista
rispetto al resto della società. Questo affascinante elemento narrativo viene
reso con un silenzio di fondo quasi assoluto, nel quale attori più o
meno famosi si alternano sul palcoscenico-limousine condotto dall’anfitrione
Robert Pattinson - mono espressivo come pochi - in una lunga giustapposizione di discorsi
lenti ed artificiali, con parole o intere frasi ripetute più volte in modo meccanico.
Un intero film senza trama, che si regge su un'auto dal
fondale palesemente falso dietro ai finestrini per buona parte delle scene, con
il contorno dei capelli degli attori che sembra ancora un rough cut di montaggio da cui resta da scontornare l’ultimo livello
di green screen, laddove neanche la fotografia riesce ad amalgamare
l’interno dell’auto con gli sfondi proposti all’esterno. Un effetto quasi da
film retrò, che fa pensare ad una scelta stilistica mirata a far concentrare lo
spettatore solo sulla qualità dei dialoghi. Ed è così che ci si ritrova ad
ascoltare cose come: “Indossi un completo da cocktail”. “Sì.” “Colore blu
navy.” “Sì.” “E gioielli d’argento e plastica.” “Sì.” “L’avevo notato.” Oppure:
“Indossavi una cravatta?” “Indossavo una cravatta?” “Indossavi una cravatta.” Primi piani deformati dal grandangolo e
speculazioni sul reale valore del denaro accompagnano il miliardario Robert
Pattinson nel suo tragitto per andare a tagliarsi i capelli
dall’altra parte della città, mentre mezza sala si è svuotata e gli spettatori
rimasti non fanno che augurarsi la sua morte, gridando battute sarcastiche. Un Cronenberg
lontano anni luce dai fasti visivi di Videodrome
ed Existenz, così come dalla crudezza
di A History Of Violence. Il
servilismo nei confronti della narrativa contemporanea Americana si traduce qui
in una triste perdita di smalto – e Pattinson di certo non aiuta.
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